Come si sa, la malattia di Alzheimer è una malattia neurodegenerativa fra le cause più frequenti di demenza senile. Comporta una perdita progressiva della memoria, per poi arrivare compromettere la vita delle persone in tutti i suoi aspetti. Colpisce il 5% delle persone con più di 60 anni e in Italia si contano circa 500 mila ammalati.

Nel corso degli anni, i medici si sono resi conto di una particolarità. La maggior parte delle persone che si ammalano sono donne. Uno studio pubblicato sulla rivista “Neurology” ha cercato di spiegare il perchè.

LO STUDIO

Lo studio in questione ha coinvolto 85 donne e 36 uomini. Con un’età media di 52 anni, senza alterazioni cerebrali, con le stesse capacità ai test di valutazione del pensiero e della memoria, stessi parametri fisiologici, come per esempio la pressione sanguigna, e simile storia familiare per quanto riguarda la presenza di casi di Alzheimer. L’idea era quella di capire se, a quell’età, ci sono già situazioni in grado di prevedere l’arrivo della malattia.

Quello che si è cercato di capire è se la maggior incidenza della malattia sia dovuta al fatto che le donne sono più longeve degli uomini. Oppure se ciò avviene a causa degli ormoni femminili estrogeni, che potrebbero giocare un ruolo fondamentale.

I RISULTATI E I RISVOLTI FUTURI

Prendendo come riferimento 4 parametri fondamentali: la quantità di materia grigia cerebrale, la quantità di materia bianca, la presenza di placche di proteina beta-amiloide, il tasso al quale il cervello metabolizza il glucosio, i risultati ottenuti non hanno lasciato dubbi. Le donne hanno sempre ottenuto i risultati peggiori. Meno materia grigia e bianca del cervello, più placche amiloidi e meno metabolismo del glucosio. Il tutto, secondo gli studiosi, è riconducibile alle variazioni ormonali legate alla menopausa.

Da questo studio sono sorti molti interrogativi. Ad esempio, ci si potrebbe chiedere se una aggiunta di ormoni estrogeni in post menopausa potrebbe preservare le donne dall’Alzheimer. Oppure se gli ormoni degli uomini giocano effettivamente un ruolo protettivo nell’ambito di questa patologia. Le risposte non sono ancora certe ma sicuramente possono lasciare spazio per nuovi studi e ricerche.

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